NOTIZIE GIURIDICHE

Appropriation art o plagio?

Si definisce arte concettuale qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa.

L’obiettivo è la creazione di un’opera d’arte fondata sul pensiero e non più su un “ormai frainteso ed equivoco piacere estetico”. Questa la definizione di Joseph Kosuth che primo utilizzò, negli anni sessanta, tale concetto per descrivere le sue opere artistiche.

Una delle manifestazioni dell’arte concettuale può essere considerata la appropriation art: forma d'arte in cui l'artista utilizza, all’interno della propria opera oggetti, immagini o opere d’arte preesistenti, trasformandoli e modificandoli in modo più o meno pregnante o riproducendoli tout court.

Questo tipo di espressione artistica – seppure già esistente – è esplosa negli anni sessanta del secolo scorso con la pop art, ed è tuttora molto amata dagli artisti contemporanei.

In Italia, la definizione giuridica di arte appropriativa trova fondamento nelle norme della legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941 e successive modificazioni). In particolare, l’art. 4 sulle opere derivate (le elaborazioni creative) che, facendo salvi i diritti esistenti sull’opera originaria, protegge le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali “le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale”. Inoltre, l’art. 18 della medesima Legge sancisce il diritto esclusivo dell’artista di elaborazione delle proprie opere. Tale diritto si ritiene comprensivo di tutte le forme di modificazione, di elaborazione e di trasformazione dell’opera (di cui all’art. 4) con la conseguente necessità del consenso dell’artista dell’opera originaria ad ogni successiva elaborazione creativa derivata dall’opera originaria creata da un altro artista.

In base a quanto appena detto, l’opera derivata potrà godere della tutela prevista dal diritto d'autore, in quanto elaborazione creativa dell’opera originaria, ove autorizzata dall’autore dell’opera originaria medesima. A questo principio fa eccezione il caso in cui l’opera d’arte appropriativa configuri una “parodia” dell’opera originaria.

Così descritta, l’appropriation art, in particolare quando si tratta di riproduzione di opere d’arte protette dal diritto d'autore, pone al giurista una serie di problematiche di difficile soluzione.

A prima lettura sembrerebbe infatti che qualsiasi alterazione di un’opera originale costituisca plagio, da cui conseguirebbe l’obbligo di ritiro dal commercio dell’opera “secondaria”.

Risulta invece legittimo l’utilizzo di opere originali come ispirazione per opere secondarie, ma tale ispirazione deve avere carattere di rivisitazione, in cui è evidente il contributo artistico dell’autore secondario. In altre parole, l’utilizzo è ritenuto legittimo laddove vi siano i presupposti anche nel caso della creazione secondaria per la concessione della protezione del diritto d’autore.

In Italia, laddove questo tipo di arte non ha avuto un grande sviluppo, è noto il caso della Fondazione Alberto e Annette Giacometti che ha promosso, nel 2010, un procedimento cautelare contro la Stitching Fondazione Prada, Prada S.p.A. e l'artista John Baldessari per l’utilizzo dell’opera del Maestro Giacometti, la “Grande Femme II” nel progetto “The Giacometti Variations” esposto presso la Fondazione Prada di Milano.

L’ordinanza del Tribunale di Milano (Ordinanza Trib. Milano, 13 luglio 2011) costituisce il primo precedente italiano significativo in materia.

La controversia ha riguardato l’utilizzo di alcune statue dell’autore Giacometti, protette da copyright, da parte del famoso artista Baldessari, al fine di essere esibite alla Fondazione Prada a Milano. Baldessari aveva operato quale unica modificazione all’opera di Giacometti l’aggiunta di parti di tessuto a guisa di abiti di alta moda sulle statue stesse.

La Fondazione Giacometti aveva agito in giudizio ravvisando nelle opere di Baldessari l’esistenza di plagio. La contrapposta parte resistente aveva argomentato la mancanza di riproduzione o ispirazione illegittima alle opere di Giacometti: le statue di Baldessari avrebbero riprodotto semplici “forme allungate di statue” volte a condannare la cultura dei disturbi alimentari nel mondo della moda mentre nell’opera di Giacometti il messaggio trasposto era invece una condanna alle atrocità della guerra. Non vi sarebbe stato plagio essendo l’opera frutto della c.d. arte appropriativa. 

Nella decisione in analisi, il Tribunale ha chiarito che le opere parodistiche, quelle burlesche o ironiche, ma più in generale le opere che rivisitano lavori artistici altrui (non essendo necessario che ispirino ironia o inducano al riso, ben potendo suggerire messaggi diversi, anche tragici, critici o drammatici), sono tali nella misura in cui mutano il senso dell’opera parodiata, in modo tale da assurgere al ruolo di opera d’arte autonoma, come tale degna di autonoma tutela.

L’esame dell’opera derivata deve essere quindi condotto non tanto evidenziando le identità e le somiglianze con l’opera originale, bensì considerando se l’opera derivata nel suo complesso, pur riproducendo — tanto o poco — l’opera originale e comunque ispirandosi a questa (Baldessari ha inteso riprodurre una “Grand Femme” come interpretata da Giacometti e non nello specifico l’una o l’altra scultura del maestro), se ne discosti per trasmettere un messaggio artistico diverso.

Un altro caso italiano deciso sulla base dell’interpretazione descritta, è quello azionato dallo scultore, artista romano, Enzo Carnebianca contro Shen Wei e la Shen Wei Dance Arts (2008 – 2010), la compagnia di danza contemporanea fondata dallo scenografo cinese, per violazione di diritto d'autore. In base alle contestazioni mosse da Carnebianca, la performance di Shen Wei, intitolata “Folding”, aveva riprodotto peculiari elementi dell'opera di Carnebianca (capi allungati delle sculture che ritraggono figure umane), senza riconoscimento alcuno dei dovuti diritti all’autore. Il giudice del Tribunale di Roma, nell’esame comparativo delle opere, ha considerato i lavori sia nel loro insieme sia come somma di elementi individuali, affermando che entrambi gli autori hanno creato indipendenti e originali opere protette da diritti d’autore e che l’opera di Shen Wei non viola i diritti di Carnebianca.

Nello stesso senso ha argomentato il Tribunale di Venezia nel caso che ha visto coinvolto l’artista malawi Samson Kambalu che nella sua installazione Sanguinetti Breakout Area, esposta alla 56° Biennale di Venezia, aveva utilizzato circa tremila fotografie ritraenti documenti, scritti, disegni e foto dell’artista Gianfranco Sanguinetti provenienti dall’archivio Beinecke Rare Book & Manuscript Library, che a sua volta aveva acquistato all’asta l’archivio situazionista di Sanguinetti. Anche in questo caso, come detto, il Tribunale ha considerato lecita la condotta di Kambalu e della Fondazione La Biennale di Venezia (pure citata in giudizio per aver esposto l'installazione) affermando il principio secondo cui “L'opera d’arte appropriazionista che facendo uso del détournement, dello scandalo e della beffa, trasmetta un messaggio creativo, originale e autonomo chiaramente percepibile non può ridursi a una mera contraffazione dell'opera appropriata, ma deve ritenersi lecita in virtù dell'esimente della parodia, secondo quanto argomentato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea n. 201 del 3 settembre 2014 (C-201/2013), essendo la parodia medesima riconosciuta come diritto costituzionalmente garantito nell’ordinamento interno dagli artt. 21 e 33 della Costituzione”.

Anche il Tribunale di Venezia fa riferimento al concetto di “elaborazione”, affermando che l'installazione di Kambalu consiste in una “elaborazione originale e autonoma, quale può certamente essere anche la rivisitazione o variazione o trasformazione dell’opera originale, mediante un riconoscibile apporto creativo manifestato nel mondo esteriore” e che l'opera “si fa veicolo di un messaggio creativo, originale e autonomo chiaramente percepibile”.

Queste decisioni rivestono una grande importanza nella materia in quanto l’utilizzo di opere protette è pratica diffusa che ingenera non poche controversie mentre i criteri per evidenziare quando un’opera integra o meno un caso di plagio sono ben lungi dall’essere individuati con precisione. Stabilire quale sia il limen tra plagio e ispirazione è tutt’altro che agevole e richiede sempre una valutazione caso per caso allo scopo di individuare il carattere originale e distintivo dell’opera idoneo a conferirle il diritto di protezione.

La posizione della dottrina è piuttosto diversa in quanto si ritiene che il semplice cambiamento dell’approccio concettuale da parte dell’artista dell’opera secondaria, in mancanza di una trasformazione materiale dell’opera, integrerebbe una violazione del diritto d’autore.

D’altro canto, la domanda é: sarebbe accettabile negare tutela a opere che integrano una vera e propria forma di arte comunemente accettata in ambito artistico?

Se avete questioni o domande in merito alle questioni trattate brevemente nel presente intervento lo Studio è a disposizione.

 

Assistente virtuale: in cosa consiste questa nuova professione digitale?

Nata in America negli anni ’90, rientra a tutti gli effetti tra le attività legate al mondo della rete che ultimamente sta prendendo piede anche in Italia e sicuramente si sta rivelando un’ottima opportunità sia per chi vuole lavorare da casa, offrendo i propri servizi online, sia per chi ha bisogno di un aiuto ma non vuole o non può assumere un collaboratore con un contratto di lavoro subordinato con tutto ciò che ne consegue.

L’assistente virtuale è, giuridicamente, un professionista in carne ed ossa che offre dei servizi spesso di natura intellettuale lavorando da remoto.

L’assistente virtuale può svolgere servizi di segreteria, organizzare appuntamenti oltre che occuparsi di tutte le mansioni legate ai social media relativi all’azienda con cui collabora. 

Quanto all’inquadramento giuridico come per la maggior parte delle professioni legate al web, non sussistono, nel nostro paese, attestazioni, corsi professionalizzanti nè albi o registri in cui iscriversi.

Come per la maggior parte dei contratti per il web, non inquadrati giuridicamente come contratti tipici, ci troviamo nella categoria del contratto di prestazione d’opera.

Siamo di fronte a un contratto di collaborazione: non c’è un rapporto di lavoro subordinato tra committente e fornitore. Tale contratto è un contratto consensuale che prevede l’erogazione di un servizio di durata ed integra (in genere) una obbligazione di mezzo.

L’assistente virtuale è un professionista a pieno titolo che presta la propria opera, offrendo dei servizi, anche di natura prettamente intellettuale. Il contratto quindi presuppone l’erogazione di un servizio di durata ed è un contratto a titolo oneroso in quanto l’assistente virtuale eroga un servizio in cambio di un corrispettivo.

Il contratto per assistente virtuale è molto variabile sia per le specializzazioni del professionista, sia per gli accordi che vengono presi con il cliente. Per tale motivo è opportuno rivolgersi ad un legale per farsi assistere nelle redazione di un contratto ben strutturato ed equilibrato oltre che personalizzato sulla base delle mansioni che vengono offerte al cliente anche per evitare possibili future controversie.

Voglio lasciare la casa coniugale e non mi sono ancora separato, posso?

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 12241/2020 offre l’occasione per esaminare la questione relativa all’addebito della separazione.

Vi sono molti casi in cui un coniuge che desidera separarsi chiede all’avvocato incaricato dell’avvio della causa di formulare la domanda di addebito all’altro coniuge della separazione e ciò in quanto ritiene di avere subito un pregiudizio alla propria persona nel corso del matrimonio e che di tale pregiudizio sia responsabilità dell’altro coniuge.

Si ritiene quindi che la separazione sia “colpa” dell’altro coniuge.

Serve fare un passo indietro per comprendere la ragione per la quale il nostro legislatore ha previsto, nell’ambito della separazione personale, l’addebito della medesima separazione all’altro coniuge in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.

La nostra Carta Costituzionale definisce all’art. 29 la famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio» e afferma l'obbligo della Repubblica di riconoscere alla famiglia così intesa i diritti che le competono; stabilisce che il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti previsti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

Il nostro legislatore all’art. 143 Codice Civile prevede che “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”.

Con la sentenza n. 12241 del 23 giugno 2020, i giudici della Cassazione hanno stabilito che quando uno dei coniugi abbandona il tetto coniugale (da intendersi come la casa in cui si svolge in via principale la vita del nucleo familiare) scatta automaticamente l’addebito della separazione a suo carico anche a prescindere dalla prova dell’esistenza di una relazione extraconiugale.

Ciò è previsto perché l’abbandono del tetto coniugale integra la violazione di uno dei principi cardine del matrimonio: la coabitazione (come previsto dal citato art. 143 Codice Civile).

L’addebito in caso di abbandono della casa familiare può essere escluso soltanto se il coniuge prova che l’allontanamento non è stato volontario e ingiustificato ma provocato dall’ex o avvenuto in corso di una preesistente crisi di coppia. Naturalmente, è necessario che coniuge si allontani per un tempo significativo ma soprattutto deve essere evidente la sua volontà di non fare più rientro nella casa familiare.

L’addebito della separazione porta con sé la perdita della possibilità di ottenere l’assegno di mantenimento – sussistendone le condizioni – nonché la perdita dei diritti successori.

Inoltre, se ad andarsene è il coniuge che con il suo reddito sostiene la famiglia, il comportamento integra gli estremi del reato di cui all’art. 570 Codice Penale a mente del quale è punito colui che abbandonando il domicilio domestico, o serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge.

Naturalmente, l’addebito della separazione può essere ottenuto anche per ragioni diverse dall’abbandono del tetto coniugale. Inutile dire che in una materia così delicata è fondamentale l’assistenza ed il supporto di un professionista qualificato anche perché è importante comprendere quale costo emotivo comporta sostenere una controversia di questo tipo.

Lo studio è a Vostra disposizione per approfondire l’argomento e/o rispondere alle Vostre questioni in merito.

 

 

 

L’assemblea condominiale in videoconferenza con il consenso della maggioranza

L’emergenza sanitaria sta imponendo l’intervento del legislatore in una moltitudine di settori per garantire la prosecuzione delle attività ed il funzionamento della nostra società.

In questo contesto si colloca la modifica dell’art. 66 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile che disciplina le modalità di convocazione e svolgimento delle assemblee condominiali sia ordinarie sia straordinarie.

Anche in questo settore si è disposta la possibilità di partecipare all’assemblea in videoconferenza dapprima, cioè con l’art. 63 comma 1-bis lettera b) del D.L. 14 agosto 2020 n. 104 era stato previsto che: “Anche ove non espressamente previsto dal regolamento condominiale, previo consenso di tutti i condomini, la partecipazione all’assemblea può avvenire in modalità di videoconferenza. In tal caso, il verbale, redatto dal segretario e sottoscritto dal presidente, è trasmesso all'amministratore e a tutti i condomini con le medesime formalità previste per la convocazione”.

Ossia, il legislatore aveva previsto per lo svolgimento dell’assemblea in modalità videoconferenza, la necessità del consenso di tutti i condomini.

Dal 3.12.2020 (Gazzetta Ufficiale n. 300 del 3.12.2020), in base al D.L.  7 ottobre 2020 n. 125 coordinato con la Legge di conversione n. 159/2020, l’art. 5bis intitolato Disposizioni in materia di assemblee condominiali ha nuovamente modificato l’art. 66 delle disposizioni di attuazione del Codice civile stabilendo che per la valida convocazione dell’assemblea mediante videoconferenza è sufficiente il consenso della maggioranza dei condomini.

Trattandosi di una mera modalità di svolgimento dell’assemblea e tenendo conto che il mezzo “videoconferenza” non sembra idoneo a pregiudicare i diritti dei Condomini la nuova modifica deve certamente essere accolta con favore rendendo possibile e sicura l’attività assembleare in questo difficile momento storico.

Lo Studio è a vostra disposizione per ogni domanda o approfondimento riteneste necessario nella materia oggetto del presente intervento.

Sono stato adottato e vorrei ricercare le mie origini biologiche

In materia di adozione il diritto alla conoscenza della famiglia biologica da parte dell’adottato, veniva, originariamente, disciplinato dalla legge n. 184 del 1983, che offriva una forte tutela nei confronti della famiglia biologica che si fosse avvalsa del diritto alla riservatezza. Non veniva pertanto garantito il diritto dell’adottato a conoscere le proprie radici. Per questo, a seguito del varco aperto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre1989, il legislatore italiano ha cercato di tutelare anche l’interesse dell’adottato, senza dimenticare la possibile conflittualità tra tale diritto e quello dei genitori naturali e adottivi. Così la legge n. 149/2001 ha introdotto e regolamentato il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni sulle proprie origini modificando, in modo significativo, la disciplina della legge del 1983.

Pertanto, dopo la riforma operata dalla Legge 149/2001 è stato riconosciuto al figlio adottato il diritto di accesso, mediante autorizzazione del Tribunale per i minorenni, al proprio fascicolo. Per farlo occorre avere compiuto 25 anni e presentare un’istanza al Tribunale per i minorenni del luogo di propria residenza.  Solo in casi particolari (gravi e comprovati motivi relativi alla salute psico-fisica dell’istante) è possibile presentare l’istanza al raggiungimento della sola maggiore età.

In entrambi i casi l'accesso verrà autorizzato dal Tribunale dei Minori competente per territorio; è competente non il Tribunale in cui il fascicolo adottivo si trova ma quello in cui l'istante risiede.   

La norma prevede che nel caso in cui anche solo uno dei due genitori naturali abbia esercitato al momento del parto ovvero al momento di prestare assenso all'adozione, il diritto all'anonimato, il diritto di accesso a queste informazioni verrà negato. 

Tuttavia, la Corte Costituzionale con sentenza n. 278/2013, ha stabilito la non costituzionalità della Legge 149/2001 nella parte in cui non preveda che in caso di istanza di accesso e ricerca dei genitori biologici da parte del figlio, vi sia l'obbligo da parte del Tribunale richiesto, di rintracciare riservatamente i genitori naturali che originariamente avevano optato per l'anonimato, al fine di verificare una loro volontà di modificare tale scelta.

In altre parole, in attesa di una riforma organica della norma, si demanda oggi alle best practices dei Tribunali per i Minorenni di provvedere all'identificazione ed alla convocazione dei genitori biologici al fine di consentire loro il potenziale esercizio della facoltà di revoca del segreto sulla propria identità che avevano inteso apporre.

In attesa, quindi, che il legislatore introduca la disciplina procedimentale attuativa del principio stabilito dal Giudice delle Leggi, il Tribunale può, comunque, procedere ad esempio all’interpello della madre, utilizzando modalità idonee a garantire la massima riservatezza ed il rispetto della dignità della donna.

Attraverso l’interpello, si è voluto assicurare un bilanciamento tra i diritti in questione: diritto alla riservatezza della famiglia biologica, da una parte, e diritto alla conoscenza delle proprie radici da parte dell’adottato, dall’altra. Il Tribunale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, e con il vincolo del segreto per quanti prendano parte al procedimento, accerta della volontà o meno della madre di rimanere anonima. Ove la madre confermi di volere mantenere l’anonimato, il Tribunale per i minorenni autorizza l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.

L’ultima pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. n. 6963/2018) sul diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini segna ulteriore una svolta in materia di adozione in quanto, permette al richiedente di cercare e/o conoscere tutta la famiglia di origine, anche sorelle e fratelli, garantendo, al tempo stesso, un bilanciamento tra i diritti fondamentali in questione: il diritto a conoscere la propria famiglia biologica e diritto alla riservatezza di questi ultimi.

Lo Studio è a disposizione per qualsiasi chiarimento in relazione all’argomento trattato.